Alle origini del difficile rapporto tra marketing e valorizzazione del patrimonio artistico italiano. In un Paese da sempre rissoso e quasi inconsapevole dell’importanza strategica, economica e sociale dei suoi beni culturali.
di Alessandro Battaglia Parodi
Il marketing dovrebbe aiutare le imprese a fare business, ma quando c’è di mezzo l’arte o la cultura le cose si complicano sempre un po’. Lo dimostra la recente vicenda Ferragni-Uffizi, che ha messo in scena ancora una volta il difficile rapporto tra valorizzazione del patrimonio artistico e strategie comunicative.
I selfie postati su Instagram Stories dall’influencer cremonese hanno infatti suscitato grande interesse, generando un aumento dei biglietti venduti a giovani sotto i 26 anni. Ben il 27% in più, a detta dei responsabili del museo fiorentino.
Ma aldilà dei numeri, tutti da verificare, il “successo” per gli Uffizi è arrivato dal dibattito che ne è seguito online e sugli organi di stampa. E soprattutto dalle critiche suscitate da quest’insolita operazione di marketing dei beni culturali. Sempre che si voglia parlare di successo!
Marketing dei beni culturali: idee poche ma confuse
Le accuse sono state numerose. Le più gettonate sono state quelle di aver profanato gli Uffizi mischiando cultura “alta” con cultura “bassa”, se non addirittura con la sottocultura. Ma soprattutto di aver danneggiato l’istituzione fiorentina svilendo il liturgico processo di “trasmissione critica dei contenuti”, orientandolo verso un pubblico di persone non colte. E dunque, implicitamente, indegne di tanta bellezza.
Senza contare poi i feroci attacchi personali all’influencer, volti a deplorare la sua bellezza, il suo lavoro e i favolosi cachet che intasca immeritevolmente. E infine, per quale arcano motivo avrebbe goduto del privilegio di un accesso privato agli Uffizi, di sera, a museo chiuso e addirittura accompagnata dal direttore Eike Schmidt?
A nulla è valsa la spiegazione che Chiara Ferragni si trovasse agli Uffizi per realizzare uno shooting per Vogue Hong Kong. Le critiche sono arrivate lo stesso, pesantissime e violente, in un classico “shitstorm” virale che non ha risparmiato nessuno, a cominciare dal museo.
L’errore fatale: arte come fruizione elitaria
E come spesso accade, la risonanza mediatica dell’accaduto ha richiamato l’intervento censorio di molti intellettuali. Che hanno stigmatizzato con fermezza tutta l’operazione come “oscena” (nel senso di non rappresentabile), priva di contenuti e sostanzialmente svilente dell’identità dell’istituzione fiorentina.
Insomma, si è generato un pasticciaccio di comunicazione che molto probabilmente è sfuggito di mano ai suoi estensori e che ha avuto un unico merito. Quello di aver portato sotto i riflettori gli Uffizi e l’immenso patrimonio di beni artistico-culturali in essi custodito. Tutto qui.
Da questa scialba vicenda emergono sostanzialmente due cose. L’incapacità del marketing culturale a gestire situazioni complesse e la tendenza degli ambienti intellettuali al rimprovero snobistico e paternalistico. Ma da dove provengono queste strane distorsioni, che fanno spesso cortocircuito quando c’è di mezzo l’arte o la cultura?
Tante “arti” in uno stesso territorio
Occorre sottolineare che, salvo rare eccezioni, i beni artistici si caratterizzano come beni sostanzialmente “pubblici”, tecnicamente definibili come “comuni e indivisibili”. Sono quindi difficilmente accostabili al business e alla fredda idea di “ricavo”. Le strategie di marketing non dovrebbero allora avere come obiettivo preminente la sola vendita di un servizio culturale. Ma piuttosto la valorizzazione del patrimonio come bussola di una più ampia mappa di fruizioni, che è quella rappresentata dall’offerta complessiva di tutto un territorio.
In parole povere la gestione di un bene artistico dovrebbe, da un lato, essere in grado di sostenersi da sé senza andare in perdita. Dall’altro, il suo principale obiettivo non sarebbe la marginalità, ma riuscire a drenare ricadute positive sulle attività commerciali e turistiche della zona.
Dovrebbe quindi riuscire a raccordare tutte le differenti esperienze di fruizione (museale, turistica, ristorativa ecc.) in un’offerta coordinata e sovraordinata. Il tutto nell’interesse della collettività allargata.
Tra la sacralità del patrimonio artistico e il business dei beni culturali c’è però sempre stato un muro di pregiudizi elitari e di visioni spesso miopi. Si tratta di due fronti contrapposti e apparentemente inconciliabili. Da una parte la crescita culturale della collettività difesa da inflessibili custodi della cultura. Dall’altra, l’attrattività di opere d’arte che si vorrebbe trasformare in marginalità immediata, come prevedono le prassi del marketing tradizionale.
C’è forse una via di mezzo? Senz’altro sì. E anche più di una. Ma per individuarle occorre probabilmente abbandonare gli schematismi del marketing e cercare di capire a fondo i motivi di tante incomprensioni.
Il grande dilemma: far quadrare i conti
Dall’avvio della Legge Ronchey (1998) fino al Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004) abbiamo assistito al progressivo ingresso dei “soggetti privati nella gestione di servizi concernenti la fruizione pubblica dei beni culturali”.
Il processo è stato virtuoso e non c’è stata mai (finora) alcuna mercificazione della cultura, come molti paventavano. Al tempo stesso non si è però assistito al vero decollo del sistema museale come volano per la crescita economica dei singoli territori.
I soggetti privati si sono semplicemente impegnati nell’organizzare iniziative volte ad attrarre il maggior numero di visitatori secondo la logica della domanda e dell’offerta. Quella per cui la redditività aumenta se crescono i volumi di vendita di biglietti e di merchandising.
Alle origini del difficile rapporto tra marketing e valorizzazione del patrimonio artistico italiano. In un Paese da sempre rissoso e inconsapevole dell’importanza strategica, economica e sociale dei suoi beni culturali.
di Alessandro Battaglia Parodi
Il marketing dovrebbe aiutare le imprese a fare business, ma quando c’è di mezzo l’arte o la cultura le cose si complicano sempre un po’. Lo dimostra la recente vicenda Ferragni-Uffizi, che ha messo in scena ancora una volta il difficile rapporto tra valorizzazione del patrimonio artistico e strategie comunicative. I selfie postati su Instagram Stories dall’influencer cremonese hanno infatti suscitato grande interesse, generando un aumento dei biglietti venduti a giovani sotto i 26 anni. Ben il 27% in più, a detta dei responsabili del museo fiorentino.
Ma aldilà dei numeri, tutti da verificare, il “successo” per gli Uffizi è arrivato dal dibattito che ne è seguito online e sugli organi di stampa. E soprattutto dalle critiche suscitate da quest’insolita operazione di marketing dei beni culturali. Sempre che si voglia parlare di successo!
Marketing dei beni culturali: idee poche ma confuse
Le accuse sono state numerose. Le più gettonate sono state quelle di aver profanato gli Uffizi mischiando cultura “alta” con cultura “bassa”, se non addirittura con la sottocultura. Ma soprattutto di aver danneggiato l’istituzione fiorentina svilendo il liturgico processo di “trasmissione critica dei contenuti”, orientandolo verso un pubblico di persone non colte. E dunque, implicitamente, indegne di tanta bellezza.
Senza contare poi i feroci attacchi personali all’influencer, volti a deplorare la sua bellezza, il suo lavoro e i favolosi cachet che intasca immeritevolmente. E infine, per quale arcano motivo avrebbe goduto del privilegio di un accesso privato agli Uffizi, di sera, a museo chiuso e addirittura accompagnata dal direttore Eike Schmidt?
A nulla è valsa la spiegazione che Chiara Ferragni si trovasse agli Uffizi per realizzare uno shooting per Vogue Hong Kong. Le critiche sono arrivate lo stesso, pesantissime e violente, in un classico “shitstorm” virale che non ha risparmiato nessuno, a cominciare dal museo.
L’errore fatale: arte come fruizione elitaria
E come spesso accade, la risonanza mediatica dell’accaduto ha richiamato l’intervento censorio di molti intellettuali. Che hanno stigmatizzato con fermezza tutta l’operazione come “oscena” (nel senso di non rappresentabile), priva di contenuti e sostanzialmente svilente dell’identità dell’istituzione fiorentina.
Insomma, si è generato un pasticciaccio di comunicazione che molto probabilmente è sfuggito di mano ai suoi estensori e che ha avuto un unico merito. Quello di aver portato sotto i riflettori gli Uffizi e l’immenso patrimonio di beni artistico-culturali in essi custodito. Tutto qui.
Da questa scialba vicenda emergono sostanzialmente due cose. L’incapacità del marketing culturale a gestire situazioni complesse e la tendenza degli ambienti intellettuali al rimprovero snobistico e paternalistico. Ma da dove provengono queste strane distorsioni, che fanno spesso cortocircuito quando c’è di mezzo l’arte o la cultura?
Tante “arti” in uno stesso territorio
Occorre sottolineare che, salvo rare eccezioni, i beni artistici si caratterizzano come beni sostanzialmente “pubblici”, tecnicamente definibili come “comuni e indivisibili”. Sono quindi difficilmente accostabili al business e alla fredda idea di “ricavo”. Le strategie di marketing non dovrebbero allora avere come obiettivo preminente la sola vendita di un servizio culturale. Ma piuttosto la valorizzazione del patrimonio come bussola di una più ampia mappa di fruizioni, che è quella rappresentata dall’offerta complessiva di tutto un territorio. In parole povere la gestione di un bene artistico dovrebbe, da un lato, essere in grado di sostenersi da sé senza andare in perdita. Dall’altro, il suo principale obiettivo non sarebbe la marginalità, ma riuscire a drenare ricadute positive sulle attività commerciali e turistiche della zona.
Dovrebbe quindi riuscire a raccordare tutte le differenti esperienze di fruizione (museale, turistica, ristorativa ecc.) in un’offerta coordinata e sovraordinata. Il tutto nell’interesse della collettività allargata.
Tra la sacralità del patrimonio artistico e il business dei beni culturali c’è però sempre stato un muro di pregiudizi elitari e di visioni spesso miopi. Si tratta di due fronti contrapposti e apparentemente inconciliabili. Da una parte la crescita culturale della collettività difesa da inflessibili custodi della cultura. Dall’altra, l’attrattività di opere d’arte che si vorrebbe trasformare in marginalità immediata, come prevedono le prassi del marketing tradizionale. C’è forse una via di mezzo? Senz’altro sì. E anche più di una. Ma per individuarle occorre probabilmente abbandonare gli schematismi del marketing e cercare di capire a fondo i motivi di tante incomprensioni.
Il grande dilemma: far quadrare i conti
Dall’avvio della Legge Ronchey (1998) fino al Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004) abbiamo assistito al progressivo ingresso dei “soggetti privati nella gestione di servizi concernenti la fruizione pubblica dei beni culturali”.
Il processo è stato virtuoso e non c’è stata mai (finora) alcuna mercificazione della cultura, come molti paventavano. Al tempo stesso non si è però assistito al vero decollo del sistema museale come volano per la crescita economica dei singoli territori. I soggetti privati si sono semplicemente impegnati nell’organizzare iniziative volte ad attrarre il maggior numero di visitatori secondo la logica della domanda e dell’offerta. Quella per cui la redditività aumenta se crescono i volumi di vendita di biglietti e di merchandising.
L’arco logico è semplice e meccanico: se si stimola adeguatamente la domanda, si può raggiungere il numero minimo di visite utili ad andare in pareggio. Da qui l’impiego, a volte freddo e disinvolto, di tutto l’armamentario classico delle attività di marketing.
Ebbene, la fragilità del ragionamento sta forse qui, nel bagaglio metodologico del marketing tradizionale. E non certo nell’aver affidato ai privati la valorizzazione del patrimonio dei beni pubblici.
La specificità del marketing dei beni culturali
Quello dei beni artistici e culturali non dovrebbe infatti essere visto come una semplice declinazione del marketing tradizionale, ma come un’attività dedicata e ben specifica. Una “specialità” che ha regole e pratiche più articolate di quanto si pensi. Perché si abbevera non soltanto alle fonti del marketing classico ma attinge anche a discipline quali l’antropologia, la sociologia, l’etnografia, la psicologia sociale e i cultural studies.
Il marketing dei beni artistici e culturali presenta poi una molteplicità di espressioni talmente ampia (dal marketing librario alle mostre d’arte, passando per musei, festival, fiere e manifestazioni musicali, compresi i concerti rock e pop) che sembrano ormai prive di senso le definizioni onnicomprensive del marketing tradizionale. Una disciplina divenuta troppo meccanica e autoreferenziale anche online, ormai tutta concentrata sui processi che conducono al semplice atto d’acquisto.
Al contrario, quel che dovrebbe contare maggiormente è invece l’esperienza di fruizione, le sue valenze simboliche e soprattutto identitarie, la condivisione, l’esibizione. Ma anche il valore del contesto e il prolungamento dell’esperienza dopo il suo reale godimento.
Tutti oggetti di studio che il marketing da solo non può investigare. Gli occorre l’aiuto di altre discipline, di altre analisi.
Ogni ambito di esposizione dell’arte dovrebbe dunque comportare un progetto pensato per quel tipo di pubblico, per quel “setting” specifico e quel genere di fruizione. E il punto di partenza dovrebbe essere sempre l’“esperienza” finale dell’utente, il magico vissuto che porterà sempre con sé e la potenziale personalizzazione di quei momenti. Non certo la loro massificazione.
Da massa indistinta a un insieme di singoli pubblici
È finita da tempo l’era in cui le appartenenze assimilavano e raggruppavano le persone, ma sembra che il marketing dei beni culturali non se ne sia ancora accorto. È allora giunto il momento di identificare pubblici più precisi, più piccoli e anche residuali se la cosa può risultare conveniente. Occorre cioè identificare e mappare i tantissimi target di nicchia, cioè l’insieme di pubblici che occupano la cosiddetta coda lunga e che sono interessati all’arte e alla cultura.
L’obiettivo è riuscire a dialogare con loro in maniera intelligente e prolungata, con l’intento di coinvolgerli, educarli, trattenerli e intrattenerli.
Insomma, il marketing dei beni artistici non ha proprio bisogno di Stories di Instagram senza alcun progetto reggente. E non si nutre certo di litigiosità, di shitstorms o di polemiche che puzzano di snobismo anche da lontano. Ha invece bisogno di un buon governo della complessità, di sinergie brillanti, di narrazioni ben costruite e connessioni fortissime con il territorio. Realizzabili con più strumenti e pratiche, e certamente anche tramite i social.
Ha quindi urgenza di coordinamenti e regìe che mettano a fattor comune le eccellenze culturali, paesaggistiche e anche gastronomiche per realizzare progetti più eleganti e “alti”. E ha bisogno di persone più preparate e aggiornate su ambiti del sapere che solo apparentemente sono lontani tra loro.
L’arco logico è semplice e meccanico: se si stimola adeguatamente la domanda, si può raggiungere il numero minimo di visite utili ad andare in pareggio. Da qui l’impiego, a volte freddo e disinvolto, di tutto l’armamentario classico delle attività di marketing.
Ebbene, la fragilità del ragionamento sta forse qui, nel bagaglio metodologico del marketing tradizionale. E non certo nell’aver affidato ai privati la valorizzazione del patrimonio dei beni pubblici.
La specificità del marketing dei beni culturali
Quello dei beni artistici e culturali non dovrebbe infatti essere visto come una semplice declinazione del marketing tradizionale, ma come un’attività dedicata e ben specifica. Una “specialità” che ha regole e pratiche più articolate di quanto si pensi. Perché si abbevera non soltanto alle fonti del marketing classico ma attinge anche a discipline quali l’antropologia, la sociologia, l’etnografia, la psicologia sociale e i cultural studies.
Il marketing dei beni artistici e culturali presenta poi una molteplicità di espressioni talmente ampia (dal marketing librario alle mostre d’arte, passando per musei, festival, fiere e manifestazioni musicali, compresi i concerti rock e pop) che sembrano ormai prive di senso le definizioni onnicomprensive del marketing tradizionale. Una disciplina divenuta troppo meccanica e autoreferenziale anche online, ormai tutta concentrata sui processi che conducono al semplice atto d’acquisto.
Al contrario, quel che dovrebbe contare maggiormente è invece l’esperienza di fruizione, le sue valenze simboliche e soprattutto identitarie, la condivisione, l’esibizione. Ma anche il valore del contesto e il prolungamento dell’esperienza dopo il suo reale godimento.
Tutti oggetti di studio che il marketing da solo non può investigare. Gli occorre l’aiuto di altre discipline, di altre analisi.
Ogni ambito di esposizione dell’arte dovrebbe dunque comportare un progetto pensato per quel tipo di pubblico, per quel “setting” specifico e quel genere di fruizione. E il punto di partenza dovrebbe essere sempre l’“esperienza” finale dell’utente, il magico vissuto che porterà sempre con sé e la potenziale personalizzazione di quei momenti. Non certo la loro massificazione.
Da massa indistinta a un insieme di singoli pubblici
È finita da tempo l’era in cui le appartenenze assimilavano e raggruppavano le persone, ma sembra che il marketing dei beni culturali non se ne sia ancora accorto. È allora giunto il momento di identificare pubblici più precisi, più piccoli e anche residuali se la cosa può risultare conveniente. Occorre cioè identificare e mappare i tantissimi target di nicchia, cioè l’insieme di pubblici che occupano la cosiddetta coda lunga e che sono interessati all’arte e alla cultura.
L’obiettivo è riuscire a dialogare con loro in maniera intelligente e prolungata, con l’intento di coinvolgerli, educarli, trattenerli e intrattenerli.
Insomma, il marketing dei beni artistici non ha proprio bisogno di Stories di Instagram senza alcun progetto reggente. E non si nutre certo di litigiosità, di shitstorms o di polemiche che puzzano di snobismo anche da lontano. Ha invece bisogno di un buon governo della complessità, di sinergie brillanti, di narrazioni ben costruite e connessioni fortissime con il territorio. Realizzabili con più strumenti e pratiche, e certamente anche tramite i social.
Ha quindi urgenza di coordinamenti e regìe che mettano a fattor comune le eccellenze culturali, paesaggistiche e anche gastronomiche per realizzare progetti più eleganti e “alti”. E ha bisogno di persone più preparate e aggiornate su ambiti del sapere che solo apparentemente sono lontani tra loro.