È difficile mettere mano al proprio branding quando è divenuto un po’ logoro e stanco. Spesso si evita la seccatura nascondendolo in un cassetto. Ma il problema rimane immutato, è solo rimandato. Che fare?
di Alessandro Battaglia Parodi
Capita spesso di intercettare sul web le storie di piccole e medie imprese, alcune di successo, che hanno saputo posizionarsi in mercati di nicchia vivendo oggi piuttosto floridamente. Si tratta per lo più di aziende del manifatturiero che esportano moltissimo e che in passato hanno lavorato come terzisti. Hanno cioè prodotto singole parti utilizzate da imprese più grandi per la realizzazione di un prodotto finito. Alcune di loro hanno deciso di uscire dalla dissanguante dinamica del pezzo (e del prezzo) imposto dai grandi brand. E col tempo sono riuscite a diventare sempre più indipendenti nella gestione della catena del valore. Ma, questa volta, del “proprio” valore.
Hanno capito che quando non sei tu a vendere quello che produci stai cedendo il controllo del tuo business a chi è molto più abile di te.
Se il tuo prodotto è buono, ciò andrà a incidere positivamente sul brand dell’azienda per cui lavori, non certo sul tuo. A te non tornerà in tasca nulla, se non il margine per il pezzo venduto.
Scardinando questa spietata dinamica, quelle che un tempo erano imprese terziste hanno fatto un vero e proprio salto di qualità. E spesso hanno visto giusto perché il successo è poi arrivato in fretta.
La pesantezza del branding
Queste aziende sono state bravissime, hanno capito qual era il loro pubblico-target e hanno iniziato a vendergli il prodotto direttamente. Crescendo ed espandendosi hanno però perso di vista un punto cruciale della loro maturazione aziendale: il branding.
Il branding è una cosa strana da definire se non si utilizzano le categorie giuste. Per descriverlo occorre impiegare concetti che sono più vicini al gergo della psicologia e delle scienze sociali che alla fredda terminologia del marketing. Il branding veicola infatti l’identità, la storia e i vissuti emotivi di un’azienda. Si tratta quindi dei valori trasmessi dal logo o dall’immagine coordinata, ma anche da tutte le esperienze che emergono dal modo di raccontarsi dell’azienda. E dall’empatia che ha saputo creare nel tempo attorno al suo marchio.
Il branding, in queste aziende, è spesso rimasto fermo all’epoca del lavoro da terzista, quando era importante farsi notare più per l’accuratezza della lavorazione e per il pricing vantaggioso che per altre caratteristiche.
Ora che si è diventati grandi, occorre dare spazio alla narrazione dell’azienda e definire il “carattere” che impregnerà tutte le nuove attività di comunicazione. Perché, occorre dirlo con forza, quello del branding è un’enorme giacimento da sfruttare con saggezza, non certo un problema da evitare.
Dimenticato o ignorato?
Ebbene, una forza immensa ma dimenticata è oggi rinchiusa in uno stretto sgabuzzino all’interno di queste piccole ma grandi imprese. Stiamo parlando di lui, del branding. Una bestia enorme, potentissima, ma pressoché ignorata. Eppure, se adeguatamente nutrita e addestrata, potrebbe essere molto utile e offrire un grandissimo spettacolo. Quell’elefante nella stanza che nessuno vuole vedere, pur nella sua ingombrante evidenza, andrebbe trattato quindi con maggior rispetto.
Certo, è difficile governare questo pachiderma con la giusta “leggerezza”. E soprattutto ora, che sembra stanco e un po’ affannato, occorre nutrirlo con cose buone. Dargli pasti generosi e, soprattutto, farlo socializzare. Fornirgli una dimora confortevole e offrire una motivazione e un’identità a tutto ciò che fa. Occorre alimentare il brand con contenuti “caldi” e abbondanti.
Nutrirlo e addestrarlo
Questo occorrerà fare. Perché è grazie a lui che si potranno raccontare storie significative in grado di arricchire i valori dell’azienda, dando più profondità alle sue radici. Sarà necessario allora occuparsi della stesura di contenuti e narrazioni coinvolgenti, in grado di spingere i visitatori a interagire attivamente con il brand. In una parola, occorrerà generare “storie” interessanti.
Addomestichiamolo allora! Addestriamo bene il nostro pachiderma. Crescerà con noi e sarà più agile e felice. Così non starà più chiuso in un buio sottoscala, triste e solitario, ma inizierà a lavorare attivamente per noi.
È difficile mettere mano al proprio branding quando è divenuto un po’ logoro e stanco. Spesso si evita la seccatura nascondendolo in un cassetto. Ma il problema rimane immutato, solo rimandato. Che fare?
di Alessandro Battaglia Parodi
Capita spesso di intercettare sul web le storie di piccole e medie imprese, alcune di successo, che hanno saputo posizionarsi in mercati di nicchia vivendo oggi piuttosto floridamente. Si tratta per lo più di aziende del manifatturiero che esportano moltissimo e che in passato hanno lavorato come terzisti. Hanno cioè prodotto singole parti utilizzate da imprese più grandi per la realizzazione di un prodotto finito. Alcune di loro hanno deciso di uscire dalla dissanguante dinamica del pezzo (e del prezzo) imposto dai grandi brand. E col tempo sono riuscite a diventare sempre più indipendenti nella gestione della catena del valore. Ma, questa volta, del “proprio” valore.
Hanno capito che quando non sei tu a vendere quello che produci stai cedendo il controllo del tuo business a chi è molto più abile di te.
Se il tuo prodotto è buono, ciò andrà a incidere positivamente sul brand dell’azienda per cui lavori, non certo sul tuo. A te non tornerà in tasca nulla, se non il margine per il pezzo venduto.
Scardinando questa spietata dinamica, quelle che un tempo erano imprese terziste hanno fatto un vero e proprio salto di qualità. E spesso hanno visto giusto perché il successo è poi arrivato in fretta.
La pesantezza del branding
Queste aziende sono state bravissime, hanno capito qual era il loro pubblico-target e hanno iniziato a vendergli il prodotto direttamente. Crescendo ed espandendosi hanno però perso di vista un punto cruciale della loro maturazione aziendale: il branding.
Il branding è una cosa strana da definire se non si utilizzano le categorie giuste. Per descriverlo occorre impiegare concetti che sono più vicini al gergo della psicologia e delle scienze sociali che alla fredda terminologia del marketing. Il branding veicola infatti l’identità, la storia e i vissuti emotivi di un’azienda. Si tratta quindi dei valori trasmessi dal logo o dall’immagine coordinata, ma anche da tutte le esperienze che emergono dal modo di raccontarsi dell’azienda. E dall’empatia che ha saputo creare nel tempo attorno al suo marchio.
Il branding, in queste aziende, è spesso rimasto fermo all’epoca del lavoro da terzista, quando era importante farsi notare più per l’accuratezza della lavorazione e per il pricing vantaggioso che per altre caratteristiche.
Ora che si è diventati grandi, occorre dare spazio alla narrazione dell’azienda e definire il “carattere” che impregnerà tutte le nuove attività di comunicazione. Perché, occorre dirlo con forza, quello del branding è un’enorme giacimento da sfruttare con saggezza, non certo un problema da evitare.
Dimenticato o ignorato?
Ebbene, una forza immensa ma dimenticata è oggi rinchiusa in uno stretto sgabuzzino all’interno di queste piccole ma grandi imprese. Stiamo parlando di lui, del branding. Una bestia enorme, potentissima, ma pressoché ignorata. Eppure, se adeguatamente nutrita e addestrata, potrebbe essere molto utile e offrire un grandissimo spettacolo. Quell’elefante nella stanza che nessuno vuole vedere, pur nella sua ingombrante evidenza, andrebbe trattato quindi con maggior rispetto.
Certo, è difficile governare questo pachiderma con la giusta “leggerezza”. E soprattutto ora, che sembra stanco e un po’ affannato, occorre nutrirlo con cose buone. Dargli pasti generosi e, soprattutto, farlo socializzare. Fornirgli una dimora confortevole e offrire una motivazione e un’identità a tutto ciò che fa. Occorre alimentare il brand con contenuti “caldi” e abbondanti.
Nutrirlo e addestrarlo
Questo occorrerà fare. Perché è grazie a lui che si potranno raccontare storie significative in grado di arricchire i valori dell’azienda, dando più profondità alle sue radici. Sarà necessario allora occuparsi della stesura di contenuti e narrazioni coinvolgenti, in grado di spingere i visitatori a interagire attivamente con il brand. In una parola, occorrerà generare “storie” interessanti.
Addomestichiamolo allora! Addestriamo bene il nostro pachiderma. Crescerà con noi e sarà più agile e felice. Così non starà più chiuso in un buio sottoscala, triste e solitario, ma inizierà a lavorare attivamente per noi.